Il lutto negato alle "mamme-non-mamme"
Come la nostra società maternalista nega il dolore e l'identità materna alle donne che non possono avere figli, hanno avuto aborti spontanei o terapeutici (mentre li pretende da chi sceglie l'IVG).
Ciao, io sono Ilaria Maria Dondi, tra le altre cose sono “mamma” dal 2016 ma esisto nel mondo dal 1981: il che significa che per 35 anni sono stata una donna, in periodi diversi dell’età adulta, prima childless e poi childfree. Questa è la mia newsletter in cui scrivo di diritti riproduttivi (che sono anche diritti a non riprodursi).
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Se sei passatə attraverso esperienze di aborto spontaneo e/o terapeutico e/o diagnosi di infertilità o sterilità, sappi che i contenuti di questo numero della mia newsletter ‘Rompere le Uova’ potrebbero essere per te particolarmente dolorosi.
D’altra parte, qualora tu scelga di andare avanti, sappi anche che l’intento del testo che segue - e della newsletter Rompere le Uova tutta - è quello di liberare tutti i nostri vissuti riproduttivi, dare voce a tutte le versioni delle nostre storie e, così facendo, liberarci alla retorica di una rappresentazione unica, che ci incasella tutte in gioie e/o traumi predefiniti.
🌸 Forse, o almeno è quello che mi auguro, potresti trovare qui una nuova prospettiva per leggere e processare la tua esperienza, insieme 🌸
Partiamo da dove ci eravamo lasciatə, visto che è passato più di un mese e mezzo dal numero precedente. Del resto, te l’avevo detto che non ti avrei riempito la casella di posta con mail a scadenza fissa - men che meno fitta -, e che non mi sarei occupata del trendig topic del momento. Che non si dica che non mantengo le promesse!
Alcuni studi hanno dimostrato che le donne infertili o sterili […] tendono a sviluppare forme di depressione maggiore simili a quelle delle persone con cancro o HIV. Ma, se da una parte la nostra società riversa biasimo e commiserazione sulle donne che non possono avere figli - e le pretende private della gioia più grande (secondo retorica paternalista), dall’altra fatica a riconoscere che sterilità e infertilità sono traumi riproduttivi molto gravi, che mettono in crisi l’identità stessa di coloro che scoprono di non potere avere figli.
Eppure, comprendere il trauma riproduttivo non dovrebbe essere troppo complesso, se chi tra noi è madre, ha scelto di o non ha mai provato ad avere figli provasse a mettersi nei panni di una donna che scopre di essere sterile o infertile.
Tendenzialmente, la maggior parte delle persone socializzate come femmine si ritrova tra le mani una diagnosi di questo tipo dopo aver passato 25, 30, 40 anni a dar per scontato di poter diventare mamma, a essere educata perché ciò accada e rappresentata nei libri e dai media come tale. È molto probabile, se non quasi certo, che essa stessa si sia proiettata nel futuro auto rappresentandosi a sua volta madre, in nome di un desiderio ardente incoraggiato dalla società e ‘allenato’ sin da piccola.
Il trauma riproduttivo di una donna che si scopre infertile o sterile, insomma, è totalizzante e devastante perché è un trauma identitario.
Se passi l’esistenza sapendo che sarai senz’altro mamma…
- e a pensare la maternità come una tappa obbligata, l’obiettivo stesso o più alto della tua vita, la garanzia di una felicità che ti è stata promessa sin da piccola e la tua realizzazione in quanto donna -,
quando scopri che madre non sarai
- almeno non attraverso un ventre rigonfio, a quel punto, cosa sei?
Cosa resta di te, della tua identità?
Sei rotta, sbagliata, insufficiente? Poverina, maledetta, sfortunata?
- Sì, ti rimanda di continuo la società. E tu finisci per crederci.
Sicura che non sia stata un po’ colpa tua?
Hai aspettato troppo, sei troppo ansiosa: vedrai che quando smetti di pensarci resti incinta. Non è che per caso hai avuto un passato troppo promiscuo o fatto uso di droghe, altro e ora il tuo fisico ti presenta il conto?
- Colpevole, dici. E anche se dici, non è colpa mia - perché davvero non è una colpa! - non riesci mai a crederci per davvero.
Eccoti insomma a vivere una vita inaspettata, e a dover trovare un nuovo senso alla tua esistenza e a ricontrattare i termini di un futuro appagante senza figli, per dirla parafrasando il titolo del libro di Jody Day, Living the Life Unexpected - 12 Weeks to Your Plan B for a Meaningful and Fulfilling Future Without Children (Pan Macmillan UK, 2020), di cui non mi risulta al momento un’edizione italiana.
Perché tutte le altre sì e io no? - ti chiedi.
La risposta è che tante altre e anche tanti altri condividono il tuo stesso trauma, anche se se ne parla poco.
Perché tutte le altre sì e io no? I numeri di chi non può avere figli
Mutuo questo elenco di dati sempre dal libro di Day, fondatrice peraltro di Gateway Women, network internazionale per donne senza figli.
Ps: mi perdonerai, spero, la goffa traduzione homemade:
Una media di 1 donna su 5 nel mondo cosiddetto sviluppato raggiunge la mezza età senza figli:
il 10% per scelta (childfree),
il 10% per infertilità
e l'80% per altre circostanze.
I dati pubblici attualmente disponibili mostrano che la media varia ed è di:
1 donne su 3 in Germania e Giappone;
1 su 4 in Irlanda, Italia, Spagna, Austria, Finlandia e Paesi Bassi;
1 su 5 nel Regno Unito
e 1 su 6 negli Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda.
1 coppia eterosessuale su 8 ha difficoltà a concepire (e in aumento, alcune statistiche mostrano 1 su 6); per le coppie omosessuali il percorso è necessariamente più complesso.
1 gravidanza su 4 termina con un aborto spontaneo e molte di queste donne non riescono ad andare oltre il loro "bambino arcobaleno", sebbene le loro storie manchino dalla narrativa dell'aborto spontaneo.
1 donna su 3 nel Regno Unito e 1 donna su 4 negli Stati Uniti ha avuto un aborto; tra coloro che in seguito si ritrova involontariamente senza figli, alcune sviluppano sentimenti complessi sul "non sentirsi autorizzate a soffrire".
Nel 2016, i dati globali per la fecondazione assistita (disponibili presso ESHRE, Società Europea di Riproduzione Umana ed Embriologia) mostrano che circa il 75% dei trattamenti non ha portato a un “parto vivo”.
Il 50% delle donne sottoposte a trattamenti per l'infertilità soffre di disturbo da stress post-traumatico (rispetto all'8% della popolazione generale).
Rispetto a questo punto si noti che il PTSD è una forma di disagio mentale che si sviluppa in seguito a esperienze fortemente traumatiche, identificate nei manuali di psichiatria con esempi tipo: attacchi terroristici, guerre, bombe, incidenti aerei, stermini di massa; ma anche terremoti, inondazioni o violenza di genere, stupri, tentati omicidi, etc.
Sulla base di tutto questo, alcune riflessioni.
Come la società maternalista condanna le donne senza figli
Vorrei provare a esplodere con alcuni esempi ciò che, nel numero precedente, avevo solo introdotto brevemente: il tema del triplo standard che opprime le donne childless (secondo il termine anglofono che identifica le donne senza figli non per volontà propria).
La società maternalista
che sacralizza la maternità e identifica in essa il fine ultimo di ogni donna, infatti:
📌 1. pretende dalle donne childless un dolore identitario e lo induce
Non contenta, lo promuove poi a gran voce con la retorica del finalismo riproduttivo, della donna che è meno donna se non si riproduce, della maternità come scopo più virtuoso e alto della donna alla quale, le condizioni di un eventuale lavoro salariato, da Costituzione italiana,
devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione. (art. 37)
In tutto questo naturalismo materno,
chi non si riproduce per scelta
sta facendo un attentato allo Stato, un affronto alla “società naturale fondata sul matrimonio” (articolo 29 della Costituzione italiana) - eteropatriarcale è sottinteso nella Costituzione ma ben esplicitato nel Codice Civile -, che è il nucleo originario su cui si basa tutto il nostro sistema civile e giuridico.chi non ha figli perché vorrebbe ma non può
può ambire solo al biasimo e alla pietà, di chi ti vuole poverina, a metà tra una donna mancata o monca o inutile, rispetto a ciò che ci si aspetta da lei,
Tutto questo dolore, la società maternalista lo genere con cura, salvo poi non riconoscerlo e non farsene carico.
L’aumento dell’incidenza della violenza di genere, soprattutto in ambito domestico, è fortemente influenzato, tra gli altri fattori, anche dall’infertilità della donna. Come scrivono Christine Bourey e Sara Murray su The Lancet, infatti
L'infertilità non è solo un problema di salute riproduttiva, ma anche un problema sociale che può influenzare il matrimonio, la famiglia e altre relazioni interpersonali, in particolare in contesti in cui la gravidanza è molto apprezzata e centrale per l'idea della femminilità. Le donne che soffrono di infertilità potrebbero essere sanzionate socialmente per l'assenza di figli o per famiglie di piccole dimensioni nelle culture in cui la progenie è tra ciò che conta di più. Pertanto, le esperienze di violenza possono influire sulla fertilità e l'infertilità può conferire rischio di IPV.
In questa sede i giornalisti fanno riferimento, in particolare, ad alcuni studi e agli aggiornamenti successivi di studiosi tra cui Wang, Yuanyuan e colleghi, confluiti in Prevalence of intimate partner violence against infertile women in low-income and middle-income countries: a systematic review and meta-analysis, The Lancet. Global health vol. 10,6 (2022), che prendono cioè in considerazione la violenza da parte del partner contro le donne infertili nei paesi a basso e medio reddito.
D’altra parte, sulla base di studi nei Paesi cosiddetti sviluppati, la stessa American Society for Reproductive Medicine ha emesso un alert, destinato agli addetti ai lavori dell’industria riproduttiva, affinché vigilino sulle pazienti in trattamento e siano in grado di riconoscere i segnali della intimate partner violence (IPV), cui le donne sterili o infertili sono più esposte.
Nei sei anni passati a intervistare donne e persone con o senza figli per la stesura del libro cui ho accennato, sono state molte le donne vittime di violenza da parte del partner o della famiglia (soprattutto di lui, ma in alcuni casi anche della propria) che ho avuto modo di ascoltare. Così come sono molte coloro che, raccontandomi dei loro aborti spontanei e terapeutici, mi hanno affidato storie di violenza ginecologica ed ostetrica, ma anche domestica, sociale e familiare.
In particolare, tutte mi hanno raccontato di quest’altra costante della società maternalista che, se da una parte pretende di identificare le donne che scelgono l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) in madri mostruose, novelle Medea, e i prodotti del concepimento espulsi con l’aborto in bambini uccisi; dall’altra:
📌 2. nega lutto e identità materna a chi subisce aborti spontanei
“So che la gente non mi vede come tale, ma io sono mamma di due bambini, anche se entrambi sono nati una settimana prima di poter essere registrati all’anagrafe e riconosciuti come ‘bambini nati morti*’”.
*Per la legge italiana, sono considerati “nati morti” e devono essere registrati all’anagrafe come tali, i feti che abbiamo abbiano superato le 28 settimane di gestazione al momento del parto (Ndr).
“Gli amici, la mia famiglia, persino il mio compagno sono in imbarazzo quando parlo di mio figlio, che per loro non esiste. Ho avuto un aborto spontaneo, per loro non sono mamma: ma io mi considero mamma del mio bambino, lui è il mio bambino bellissimo ed è morto. E questo per me è un dolore insormontabile”.
E ancora, l’elenco di alcune frasi riferitemi da donne che hanno avuto aborti spontanei o terapeutici da parte del personale sanitario:
Su, su, si faccia una bel pianto adesso, che poi tra qualche settimana si rimette in pista e vedrà che la prossima volta andrà meglio.
Signora, adesso basta, deve farsi forza: sa a quante donne succede?
Tempo un paio di mesi ed è come nuova.
Capita, ma appena avrà il suo bambino tra le braccia magari già tra un anno questa sarà solo una brutta storia. Non ci penserà più.
Signora, se la prende così e mi va in depressione, per forza che poi non mi resta incinta o mi perde un altro bambino.
Poi, di nuovo, la vicenda del Cimitero dei Feti di Brescia di cui mi sono occupata nel 2021.
Un anno prima, nel 2020, la segnalazione di Marta Loi aveva fatto esplodere il caso stesso dei Cimiteri dei Feti: da allora, e a partire dal Flaminio di Roma, molte donne che hanno praticato IVG hanno scoperto dell’esistenza di lapidi riportanti i loro nomi e/o cognomi e la data del loro aborto. Hanno scoperto cioè che i prodotti del concepimento dei loro aborti volontari erano stati seppelliti a loro insaputa e senza consenso da alcune associazione cattoliche e antiabortiste, con la connivenza degli ospedali.
Anche nella mia città, Brescia, alcune donne si sono trovate davanti lapidi con i propri dati personali al cimitero monumentale Vantiniano, almeno finché nell’autunno del 2021 il Comune di Brescia ha deciso di entrare con le ruspe nei “Riquadri A e B”, che compaiono sulla mappa cimiteriale con la dicitura Bambini.
L’operazione si conclude con l’esumazione di circa 2500 loculi occupati, indistintamente, da prodotti del concepimento da IVG, feti da aborto spontaneo e terapeutico, bambini cosiddetti mai nati tra il 2007 e 2016, cui le famiglie avevano scelto di dare sepoltura, salvo trovarsi da un giorno all'altro, senza le tombe dei figli.
È Silvia, dalle pagine del Giornale di Brescia, a denunciare la macabra scoperta per prima:
Mi sono sentita persa, non so neanche descrivere cosa ho provato. Ora il mio bambino l’ho perso per sempre.
Ed è dopo aver letto la sua storia che una donna, che scelgo di nominare come Sara, mi scrive: in quel cimitero c’è la tomba, con la lapide di marmo e i pupazzetti portato dai fratellino, del suo bambino. Sara ha scelto l’aborto terapeutico a seguito di una diagnosi terribile e con grande dolore, abita altrove, non riesce a passare al cimitero ma ha una sinistra impressione, chiama in continuazione l’ufficio comunale adibito alle sepolture ma risulta sempre staccato. Decidiamo che l’indomani – martedì 23 novembre 2021 – andrò a fare un sopralluogo al Cimitero di Brescia per verificare che la tomba di suo figlio sia ancora lì. Non c’è. Questo è quello che rimane dei reparti A e B (foto scattata da me in quella data).
Di come questa brutta storia sia stata oggettivamente possibile, ho scritto su Roba da Donne.
Ma ciò che mi ossessiona, da persona prima ancora che da giornalista, è ciò che ha permesso che la vicenda del Cimitero dei Feti di Brescia accadesse, cioè
la falsa retorica pro-vita, che merita di essere chiamata per quella che è: una retorica anti-abortista, lesiva dei diritti di tutte le donne, a prescindere dal loro stato, scelta o condizione riproduttiva e finalizzata non alla vita dei nascituri, né alla tutela della madri, ma al controllo dei corpi con utero.
Alla donna che, legittimamente, si avvale di un diritto e sceglie di interrompere la gravidanza, la logica pro-vita impone i termini della figliolanza e, quindi, della maternità: il feto è il figlio ucciso, da seppellire a sua insaputa usando a proprio piacimento il cognome (in alcuni casi anche il nome) della donna (non madre!) e la data del suo aborto volontario.
Il dolore della madre che abortisce un figlio desiderato, invece, è delegittimato, sminuito.
Per tanti – e a livello sociale – una donna che ha avuto un aborto spontaneo o terapeutico è una non mamma, a meno che non abbia avuto altri figli.
Su tutto, di nuovo, le parole di Sara:
“Ma io sono mamma di [NOME OMESSO]. Quando mi chiedono se ho figli io rispondo tre, non due. Solo che del mio primo bambino non mi resta neppure più una tombicina.
Era giusto rimuovere i nomi e anche le tombe di chi ha scelto di avvalersi dell’interruzione volontaria di gravidanza, ma solo quelle.
Così per riparare a un torto ne hanno fatto un altro.”
C’è anche un altro aspetto che la società maternalista vuole mettere a tacere, affinché passi sotto traccia, resti invisibile perché è indicibile. E affinché questo accada:
📌 3. invalida le storie di sterilità o infertilità felici
Ci si può pensare per una vita future madri, ma non andare in pezzi di fronte a una diagnosi di infertilità? Sì, si può.
Si può andare in pezzi, ma risollevarsi da un dolore che si pensava totalizzante e invece può diventare uno di quei (tanti) piani e/o sogni che la vita ci manda gambe all’aria? Sì, si può.
Ci si può trovare a pensare, mi dispiace ma pazienza: non sarò una madre biologicamente parlando, ma lo diventerò in altro modo e per questo non lo sarò di meno. Sì, si può (e quanto la retorica maternalista invalidi l’adozione, l’affido e le maternità sociali sarà prima o poi tema di questa newsletter!).
Si può addirittura dire: mi dispiace ma pazienza: non sarò una madre, sarò altro. Ed essere felici? Finanche pensare che è andata bene così? Sì, si può.
Non lo dico io, lo dicono molte donne incontrate in questi anni, che la società si ostina a zittire, o che si autocensurano per non dispiacere o fare letteralmente inorridire partner, parenti, amici. Eppure esistono.
Si può scoprire di essere sterili o infertili ma stare benissimo, ed è il momento di raccontarlo e normalizzare l’infertilità.
Siamo donne complete e possiamo essere felici anche dopo aver scoperto di non poter avere figli
Sin da bambine, siamo educate a pensarci mamme (e a giocare/ allenarci a esserlo). Tutto e tutti intorno a noi - e quindi noi stesse - diamo per scontato che, salvo eccezioni, potremo diventare tutto ciò che desideriamo - per fare il verso alla bambola più fashion e famosa del mondo -, ma che di sicuro o quasi certamente saremo madri.
Quella materna è un’identità femminile totalizzante e che si dà per certa, al punto che persino chi si pensa sin da giovane childfree (o comunque non ha mai pensato ad avere figli), rischia di andare in crisi se scopre di non poterne avere.
In questa identità di mamma che non può essere mamma, una donna sterile rischia di perdersi.
Ora, mi chiedo: questo dolore smisurato legato all’infertilità è davvero congenito e naturale?
(per usare una parola cara ai maternalisti, che della natura paiono considerare solo l’aspetto patinato da glamping full-optional)
E ancora: quanto di questo dolore smisurato è (anche) in gran parte legato e determinato da un costrutto sociale? È cioè un dolore imposto e indotto ancora e di nuovo per controllare le persone con utero, un cliché millenario radicatosi nel sistema valoriale della nostra cultura e con cui siamo costrette a misurarci senza scampo?
E allora, mi chiedo e ti chiedo - perché mi piacerebbe sentire la tua voce e tante altre ancora -:
è possibile accogliere il lutto e l’identità materna delle donne che si spezzano dopo un aborto spontaneo, senza contrapporle od opporle a coloro che scelgono l’IVG o alle madri per diritto biologico e/o sociale?
è possibile raccontare storie di sterilità non totalizzante o addirittura felice, e ascoltarle senza giudizio, accoglierle nella consapevolezza che ogni persona non è un’isola rispetto alle altre e che la stessa donna, peraltro, può essere la childfree, la childless e/o la madre brava o snaturata in momenti diversi della propria vita.
Ribalto e adatto, a nostro vantaggio, il senso di un verso della mia poetessa preferita, Wislawa Szymborska, con la certezza che lei non ne avrebbe a male; anzi. A me sembra che
Con tale fede ci sarà più lieve vivere e morire.
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🥚 Le puntate precedenti
Qualora te le fossi perse:
"Vorrei avere figli, ma non posso"
Quante condizioni childless esistono oltre la narrazione unica del 'figlio che non arriva'?
Quante ragioni abbiamo per NON avere figli?
E se, invece di chiedere Perché non vuoi figli?, chiedessimo Perché ne hai/ vuoi?
Madri, childless, childfree... Altro
Come vogliono dividerci in base a quello che i nostri uteri hanno o non hanno prodotto - o al fatto stesso di avercelo, un utero!
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Ilaria Maria Dondi
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