Donne che non vogliono figli, ma generano parentele
Al grido di "Generate parentele, non bambini!", Donna Haraway ci invita a emanciparci dall’ossessione della parentalità biologica e del ventre gonfio, e a ripensare il concetto di famiglia.
Una prima versione dell’articolo che segue è stata pubblicata a fine giugno, sul numero #23 a tema “Famiglie” di DiverCity, rivista trimestrale europea che si occupa di D&I e innovazione. Quella che segue è la riproduzione del pezzo originale, con ampliamenti e approfondimenti per ragioni di spazio omessi dall’edizione cartacea. Ringrazio la responsabile di redazione Marta Bello per avere fortemente voluto questo mio contributo e la direttrice Valentina Dolciotti per aver acconsentito alla sua riproduzione qui.
“Una su cinque non lo fa”, per dirla con il titolo del saggio di Eleonora Cirant. Non fa figli, s’intende: eppure le donne childless, letteralmente senza figli, pur non essendo un’anomalia statistica continuano a essere chiamate a giustificare l’eccentrica stranezza: “Perché non hai figli?”.
L’indagine riproduttiva è tesa a chiarire se la persona in questione “non può o non vuole avere figli”.
Nel primo caso sarà considerata “monca”, perché impossibilitata a realizzarsi nella presunta identità femminile materna, ma almeno “poverina”, cioè non colpevole. Se invece l’anomalia senza figli, che in Italia si attesta oramai sul dato “una su quattro non lo fa”, è volontaria, allora si assume il principio di egoismo della childfree (letteralmente libera da figli) e seguono commenti e consigli non richiesti: dall’“E se poi te ne penti?”, ai “Non sai cosa ti perdi?”, “Non è naturale” e “Non puoi capire!”.
Se è vero, ed è vero, che la maternità continua a essere una non-scelta possibile per molte giovani, che si trovano nelle condizioni di non riuscire neppure a immaginare un futuro per se stesse - considerando la situazione economica, sociale ma anche globale, geopolitica e climatica -, figuriamoci quello di un figlio o una figlia; dall’altra parte un’indagine dell’ente fondatore dell’Università Cattolica, l’istituto Toniolo, ci mostra l’altra faccia della medaglia:
Su 7mila donne tra i 18 e i 34 anni senza figli,
il 21% non vuole averne per deliberata scelta childfree,
il 29% si dichiara solo debolmente interessata.
Ora, invece di tentare di convincere queste giovani a intraprendere genitorialità cool (cit. Lavinia Mennuni, senatrice della Repubblica per Fratelli d'Italia) e romanticizzate, un dibattito serio sulla denatalità dovrebbe semmai orientarsi a mettere il 50% di coloro che desiderano averne nelle condizioni di diventare madri. In questo modo è lecito supporre che parte di quel 29% oggi poco interessata potrebbe rivalutare l’idea. Ma non è questo il tema, in questa sede.
Donne o persone childfree non significa cittadine di serie B
Essere donne o persone childfree non significa essere cittadine o cittadini di serie B, e di questo 21% che di figlii non ne vuole sapere bisogna pur occuparsi: tanto più che
childfree non è sinonimo di family free,
né di vita e quindi tempo “vuoti”, pregiudizio radicato sulla base del quale alle lavoratrici senza figli si chiede in continuazione di farsi carico di turni serali o festivi di colleghe e colleghi con figli.
(((Parentesi. Di questo, ho parlato più approfonditamente in: Il "tempo vuoto" delle donne senza figli, discriminate sul lavoro)))
A livello statistico, le persone senza figli sono semmai…
… quelle che più supportano i genitori e mantengono con loro relazioni profonde, oltre a farsi carico dei compiti di cura e assistenza. Le donne single e childfree tendono poi a creare reti di mutuo sostegno, e a portare il proprio contributo umano e di cittadine a beneficio della comunità. Per dirla con le parole della sociologa
, le persone childfree non si riproducono biologicamente, ma la riproduzione sociale è importante tanto quella biologica, e forse di piú. - Dal mio saggio, Libere. Di scegliere se e come avere figli, Einaudi, 2024.E qui, del resto, si arriva anche a un altro punto centrale ma omesso dal dibattito: pensare che la maternità coincida con la gravidanza o il parto è una sciocchezza evidente. Credere all’equazione
maternità = gravidanza o parto
significa legittimare nuclei genitoriali abusanti, mentre si delegittimano maternità sociali come l’adozione, che infatti continua a essere considerata una genitorialità di ripiego.
Pregiudizio innegabile quanto orribile che, tra le altre cose, mostra quanto poco la nostra società sia davvero interessata ai bambini una volta che questi sono nati e molto attenta, al contrario, alla necessità di riempire gli uteri delle donne per garantire una genealogia considerata di “serie a”.
L’idea miope dell’unica genitorialità possibile intesa come biologica, tra l’altro, induce a negare il riconoscimento giuridico di famiglie non eteronormate; perché
al nostro sistema fa più paura ammettere l’esistenza di parentalità non genetiche, basate su una scelta responsabile d’amore, che rendere bambine e bambini orfane o orfani, per legge, di padri o madri invece presenti
(padre ignoto è la dicitura classica con cui si registrano all’anagrafe i figli e le figlie di due madri, laddove la madre cosiddetta intenzionale e non biologica, seppur presente e a tutti gli effetti madre, non viene legalmente riconosciuta, con tutte le conseguenze che ciò comporta).
Ridicolizzare o intentare “crociate” contro genitorialità queer, sociali e non biologiche in generale - compresa la filiazione d’anima introdotta nel dibattito mainstream da Michela Murgia - è un altra modo ancora per esorcizzare la portata rivoluzionaria di genitorialità e sistemi parentali basati sul consenso, sulla cura e sulla libera scelta.
Si noti anche che, d’altra parte, le stesse istituzioni non battono ciglio di fronte alla pervasività della violenza sui minori nella famiglia eteropatriarcale, che dovrebbe bastare a comprendere che
madri o padri non lo si diventa perché c’è stato un concepimento, una gravidanza e un parto. Né perché si è contribuito con un seme, che va a costruire un patrimonio genetico refertabile nell’esame del DNA.
“Generate parentele, non bambini!”
Al grido di Generate parentele, non bambini!, che tanto scandalizza i movimenti anti-choice e non solo, in Chthulucene: sopravvivere su un pianeta infetto, Donna Haraway ci invita a esplorare altre forme di cura. Non voglio spingermi qui nel terreno della maternità/ genitorialità cyborg profetizzata (o auspicata?) dalla filosofa e zoologa femminista in Manifesto cyborg, dove nel cyborg unione di uomo e macchina Haraway ipotizza il postumano in grado di superare le dicotomie oppressive, a partire da quello uomo\donna.
Non voglio perché il tema, interessantissimo, è ostico ai nostri occhi e necessita di un approfondimento a sé. Ridurre, come vedo fare spesso, Manifesto cyborg (di cui consiglio caldamente, peraltro, l’introduzione di Rosa Braidotti) al cyborg utero che dovrebbe liberare i corpi delle donne, e quindi le donne stesse dal diktat della maternità, sminuisce il pensiero di Haraway e apre a facili attacchi. A partire dal rischio di capitalizzare il desiderio del figlio come già accade con la GPA e i percorsi di fecondazione nel momento stesso in cui diventano “privilegio riproduttivo”, e quindi capitalismo riproduttivo. Laddove cioè all’autodeterminazione, al consenso e al desiderio si preponga la logica del denaro e del potere.
(((Parentesi. Per approfondire il tema del privilegio riproduttivo: Se sei donna ci si aspetta che tu diventi madre (ma non vale per tutte!)))
Per inciso: questo non significa ergersi contro le gestazione per altri a priori, o pensare sia possibile proibire (o rendere “reato universale”, senza peraltro avere alcun potere di farlo) una pratica che nella storia dell’uomo è sempre esistita, anche prima che il capitalismo la mettesse a profitto e ne facesse industria del figlio.
Con Generate parentele, non bambini! - per tornare al “precetto” racchiuso dall’immaginifico ma per nulla astratto Chthulucene: sopravvivere su un pianeta infetto -, Haraway ci invita a emanciparci dall’ossessione della parentalità biologica e del ventre rigonfio. Se il suo suona come un comandamento è perché lo è: non c’è più tempo!
O l’uomo, inteso come specie, smette di pensarsi come centro, misura e deus ex machina del mondo, o la Terra è spacciata per la cecità del suo stesso autoproclamato dio.
In questo senso Haraway, ci avverte sulla necessità di superare il cosiddetto Antropocene, neologismo ormai non più tale con il quale si indica l'attuale era geologica, nella quale l'essere umano - ἄνϑρωπος ('uomo') - con le sue attività è riuscito a modificare in modo strutturale la Terra, esaurirne le risorse, mutare i ritmi naturali e climatici, incidendo sui processi geologici.
“È tempo che le femministe prendano le redini dell’immaginazione, della teoria e dell’azione per sciogliere ogni vincolo tra genealogia e parentela, e tra parentela e specie”.
Scrive Haraway, e
in un articolo su Il Fatto Quotidiano del 2019 ci avverte:Il richiamo è quanto di più umano si possa immaginare: “Generare parentele – making kin – ed esercitare la premura verso l’altro – making kind – (intesi come categoria, cura, parentele senza legami di sangue, parentele altre e molte altre ripercussioni) sono processi che ampliano l’immaginazione e possono cambiare la storia”. In questo modo, si immagina Haraway, gli esseri umani potranno sperare di tornare “a essere due o tre miliardi” e solo così, riducendo il numero di abitanti sulla terra e rafforzando le relazioni tra gli esseri che sopravvivono, sarà aumentato “il benessere di un’umanità diversificata”. Per noi, ancora bloccati nell’Antropocene, e con gli occhi pieni di “estinzioni di massa” è molto difficile da pensare. Ma Haraway va oltre: chiude il suo saggio con un racconto di come si immagina lei che potrebbero vivere le nuove comunità. La filosofa e scrittrice pensa a un mondo dove la natalità è una scelta collettiva che viene presa insieme proprio perché si conoscono le conseguenze alle quali potrà condurre.
Partendo dalla prospettiva distopica di Haraway, che può sembrare così futurista o addirittura inquietante, forse è più facile comprendere le famiglie queer1 “di Murgia” (nel senso di portate nel dibattito mainstream dalla scrittrice e intellettuale italiana).
Viste da qui ci sembrano più accessibili e anzi necessarie famiglie che, per dirsi tali, non hanno per forza bisogno di DNA, o di sesso come vincolo e legame di appartenenza, e quindi modello di potere e possesso.
Ecco le famiglie che non solo nuclei a due: monadi solitarie che si presume destinate (e quindi sollecitate) a unirsi con una sola altra monade, per creare nuove solitudini. E non si tratta solo di parlare di famiglie monogenitoriali o omogenitoriali o transgenitoriali, ma proprio di uscire dalle griglie del DNA e del sesso.
Cosa centrano in questo le donne senza figli (ma anche gli uomini, i perenni esclusi dal discorso della genitorialità)? Molto, perché cittadine e cittadini determinanti in quella che
la genitorialità sociale. Mi spiego meglio, usando le parole del mio saggio:l’indignazione e la riprovazione morale rivolte alle persone senza figli originano spesso da un malinteso, in cui si confonde la scelta childfree con il disamore per i bambini o con l’antinatalismo. Sono cose diverse: possono coincidere nella stessa persona, ma non necessariamente.
Che si possano amare i bambini senza volerne, lo dimostrano le tante persone che votano la loro vita alla pedagogia e all’infanzia, senza sentire l’esigenza di avere figli ed esperienza di genitorialità. Anche in questo caso il sessismo risparmia gli uomini che, per esempio, esercitano la professione di pediatri, educatori o insegnanti, non le donne la cui professione in questi campi è spesso giudicata con il metro della maternità.
Nella riunione propedeutica all’inizio del secondo anno di asilo nido di mio figlio, un padre ha chiesto all’insegnante di riferimento se avesse figli e, alla risposta negativa di lei, ha reagito cosí: «Immagino che una donna possa essere un’ottima insegnante anche senza figli, ma mi stupisce che chi ama i bambini non ne abbia». È una domanda che alle professioniste dell’infanzia senza figli viene rivolta di frequente. Ora, chiedo: quanti di noi hanno avuto pessime maestre, insegnanti o dottoresse che, nel privato, erano madri, senza trarre alcun giovamento dalla loro esperienza diretta di produttrici e allevatrici di pargoli? E ancora: quanti bambini sperimentano il disamore di genitori che li hanno generati per noia o dovere come si timbra un cartellino in fabbrica, e ne pagano le conseguenze?
E centrano, le persone childfree, perché essere senza figli non significa essere familyfree, quindi senza famiglia.
Anzi, proprio perché sono le persone senza figli, abbiamo visto, a creare reti e relazioni più durature e partecipate (mentre la solitudine aumenta esponenzialmente nella cosiddetta famiglia eteronormata), sono sempre loro che possono indicarci la strada per la costruzione di famiglie sostenibili.
Cos’è una famiglia sostenibile?
Dove per sostenibile intendo a livello ambientale2, certo, ma anche a livello sociale, emotivo, affettivo, nonché interelazionale, intergenerazionale e interspecie.
Dobbiamo ripensare il concetto di famiglia come non monolitico: semmai come spettro o termine ombrello per tante famiglie possibili, alla base delle quali non c’è un patto di sangue, sesso o soldi, e quindi di potere, ma l’autodeterminazione, la responsabilità reciproca e, soprattutto, il consenso.
I figli e le figlie in tutto questo non possono essere merce di scambio, né obbligo.
Criminale e fuorilegge NON dovrebbero essere le genitorialità non eteronormate MA la genitorialità inconsapevole, che reitera logiche di potere proprie alla famiglia nucleare.
Criminale e fuorilegge dovrebbe essere il concetto stesso di privilegio del figlio, che permette solo a un esiguo numero di persone che lo desiderano di diventare genitori, sulla base di requisiti eteropatriarcali. E laddove si interroghi il desiderio, invece della sua assenza, “non voglio avere figli” è la motivazione più che valida e sufficiente - posto che ne serva una - per scegliere di non riprodursi, almeno biologicamente parlando.
(((Parentesi: su quest’ultimo punto rimando a Quante ragioni abbiamo per (NON) avere figli? E se, invece di chiedere 'Perché non vuoi figli?', chiedessimo 'Perché ne hai/ vuoi?')))
Questo è l’articolo originale comparso su DivercityMag, che si può leggere qui.
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Un libro da leggere sul tema
So di aver trattato un tema per certi aspetti complesso (mi riferisco alla parte in cui si parla di postumano, cyborgfemminismo, eccetera).
A questo proposito, se qualcuno volesse approfondire la questione, al di là dei libri di Haraway citati, consiglio Angela Balzano, Per farla finita con la famiglia. Dall’aborto alle parentele postumane, Meltemi, 2021.
Ne ho parlato più diffusamente in questa nota.
Libere tour! A luglio ci vediamo qui?
Che te lo dico a fare, ovviamente uno dei modi migliori per supportarmi è acquistare questa cosina qui sotto, che ho impiegato sei anni a mettere insieme 😍
Libere. Di scegliere se e come avere figli (Einaudi) è in tutte le librerie e negli store online.
Di seguito, trovi le date della seconda metà di luglio. Ce ne sono già alcune in programma anche in autunno, ma ne parliamo più avanti. Per gli aggiornamenti sugli eventi (dettagli o date dell’ultimo minuto), ti rimando al mio profilo Instagram.
Luglio
19 luglio | Botticino (BS)
Spazio Cultura - h. 19.30
con Nadia Busato
Festa della Valverde, via del Marmo27 luglio | Ponte di Legno (BS)
Caffè Roma, piazza XXVII Settembre - h. 17.30
con Stefano Malosso e Nadia Busato
Il Sentiero Invisibile Festival
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Ilaria Maria Dondi
Posto che ho alcune riserve sull’uso, in questo senso del termine queer, ma magari di questo ne parliamo un’altra volta.
da Dondi, Libere. Di scegliere se e come avere figli, Einaudi, 2024.
Un bambino produce 58,6 tonnellate di CO2 in un anno.
Per intendersi, in termini quantitativi, un’automobile di media produce 2,4 tonnellate di anidride carbonica all’anno e un volo intercontinentale 1,6.
Siamo troppi, non troppo pochi.
Secondo il World Population Prospects, nel 2050 saremo 10 miliardi di persone. Altro che denatalità. L’inverno demografico di cui si fa tanto parlare esiste, ma è un problema nazionalista o quanto meno occidentale, cioè razzista: si tratta di non avere il tasso di ricambio generazionale per continuare a tenere chiusi i confini e preservare la stirpe, il privilegio e quindi l’egemonia bianca.
che bello generare parentele! Anche con le amiche, con le colleghe e colleghi, generare comunità!
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