Uomini che mandano i figli alla guerra. Donne che costruiscono la resistenza.
La disperazione non serve. Mentre le “ragioni della guerra” affondano le radici nel sistema patriarcale e lo rafforzano, costruiamo comunità alternative e resistenti. Le donne lo fanno da sempre!
Ciao, io sono Ilaria Maria Dondi, faccio la giornalista e mi occupo di questioni di genere. Ho scritto il saggio “Libere. Di scegliere se e come avere figli” (Einaudi, 2024) e questa è la mia newsletter in cui scrivo di diritti riproduttivi (che sono anche diritti a non riprodursi).
PS. Doveva essere un'edizione speciale dedicata alla paternità. È diventata altro, ma in questo momento è giusto così!
Ieri la mia casella di posta elettronica era un tripudio di codici sconto e offerte speciali per la Festa del Papà, e io ho sentita più viva che mai la mia stanchezza per questo mercificare quotidiano di sentimenti e legami. In questo tempo violento, anche le mie emozioni sono stanche, spesso meschine. Cerco di prendermi cura della rabbia perché se la lascio andare subentra il senso di impotenza, quindi la disperazione. Non serve a nessuno. Non a me, non a questo mondo.
Così, torno alla rabbia, mi ci aggrappo. La noto, invece di subirla (o almeno ci provo), e mi accorgo per la prima volta che è come le ossa: impalcature di fibre proteiche e collagene, cristalli di sali di calcio e fosforo, di magnesio e altri elementi; e ancora, osteoblasti, osteoclasti, osteociti, cellule di cui non conosco neppure i nomi, che mi vengono restituiti da un sito scientifico per soddisfare questa mia estemporanea curiosità; eppure mi sorreggono e mi permettono di compiere i miei gesti quotidiani. Non so nulla di questa struttura articolata che protegge i miei organi e sostiene muscoli, tessuti, strati di pelle e autostrade di arterie, vene e capillari. Mi porta in giro, senza che io ci presti attenzione, ma se qualcosa o qualcuno me la sfilasse via imploderei su me stessa.
Le donne alla guerra, le donne contro la guerra
Le voci delle donne attorno a me sono un coro, di rabbia e dolore. Mi metto in ascolto, mi tengo stretta la prima per tenere sotto controllo il secondo. Scrive su Instagram la poeta Alessandra Carnaroli:
Pensierini sparsi
Per il giorno di festa
Oggi anche a Gaza
È la festa dei padri
Però mortiE i figli uguali
È una tragedia vecchia di millenni e noi donne siamo pizie, Cassandre non credute, Erinni da rimettere al proprio posto di Eumenidi, vicino al focolare domestico: madri, sorelle, mogli, amanti e figlie che dovrebbero occuparsi della casa e lasciare che gli uomini facciano le cose degli uomini, soprattutto la guerra. Pare non piaccia a nessuno, eppure la fanno da sempre. Piace fin troppo, in realtà: piace a quelli che alla guerra ci mandano a morire gli altri, mentre si riempiono le tasche dei tanti soldi che la guerra porta con sé. Tra gli altri, i soldi degli armamenti, venduti tanto agli alleati quanto ai "nemici" che, sul mercato, rispondono all’unica ragione del "cliente"; e quelli del “riarmo per non fare la guerra" e "proteggersi se diventa inevitabile". Farebbe ridere la convinzione con cui pronunciano questo ossimoro, se non facesse spavento.
Persino gli uomini della sinistra ci dicono che questo Occidente, poverino, è orfano di guerrieri (Antonio Scurati su la Repubblica); mentre i filosofi che la guerra non l'hanno fatta né ci andranno, come Umberto Galimberti, hanno parole coraggiose:
A volte la pace intorpidisce anche la dimensione guerriera di difendere la tua terra e i tuoi diritti.
Siamo Cassandre, eppure a volte ancora ci sorprende vedere che pensieri piccoli fanno gli uomini, cresciuti con i soldatini e le pistole, mentre noi bambine siamo cresciute giocando a spadellare per mariti e crescere bambini, da baciare e, all'occorrenza, mandare alla guerra.
"Auguri, e figli maschi!", si diceva una volta, e ancora si dice; anche se oggi va bene uguale, perché: "Se volete davvero la parità, andateci anche voi a morire in guerra!". Come se non l'avessimo già fatto. Come se non lo facessimo in continuazione.
E non parlo solo delle donne che la carriera militare la scelgono…
Come se la Rivoluzione Francese, l’unità d’Italia, i moti del pane, la Resistenza - per restare nel nostro Occidente piccolo e ombelicale - si fossero fatte da sole; e il contributo delle donne fosse stato marginale o al massimo propedeutico, come ancora ci raccontano nei loro volumoni di Storia contemporanea gli uomini stimatissimi che ne scrivono.
Come se nel Sud di questo mondo globale, non fossero le donne, in questo momento, a combattere una strenua resistenza contro questa “guerra ibrida iper-imperialista che rafforza il patriarcato e altre forme di discriminazione sociale”.
Come se, a stare buone buone a casa, la guerra si fermi fuori dal portone.
I signori della guerra prima e della pace poi
Siamo Cassandre, e abbiamo già visto il futuro, che assomiglia al passato e a quanto accade altrove dopo, a distruzione completata: i maschi della guerra arriveranno con il sorriso dei buoni, a parlare di pace e ricostruzione. Perché arrivano sempre, a occupare i posti che contano e a intascare i soldi. E se la guerra porta tanti soldi, sai quanti ne porta poi la pace! C'è da ricostruire sulle macerie: sai quante opportunità!
"Pensati in un nuovo boom economico", in un clima di fiducia e di euforia come quello in cui si stava meglio, quando si stava peggio. Sull'onda dell'entusiasmo, probabile che pure noi donne poi si torni a fare bambini, come una volta.
È una storia vecchia come il mondo. Come il fatto che la guerra uccida donne e bambini e anziani, persone di pace e “persone della guerra”; come il fatto che disgreghi famiglie, interrompa e falci intere generazioni e neghi loro il futuro.
Solo uno come Erodoto, un uomo, può lasciarsi andare alla retorica della guerra, dei padri e dei figli:
In tempo di pace, i figli seppelliscono i loro padri; in tempo di guerra, invece, sono i padri a seppellire i loro figli.
In guerra i padri muoiono e muoiono i figli, muoiono le madri e le figlie, muoiono tutte le persone, senza limiti di età e di parentela; muoiono persino gli animali, il gatto, il cane, il cavallo che trascina il carretto con i feriti perché le auto sono carcasse senza benzina, il pappagallo, la cocorita, e pure i ratti nelle fogne.
Anche in quel passato epico caro a letterati e umanisti, buono per cantare “le donne, i cavalier, l'arme, gli amori”, guerra e morte non sono mai rimaste perimetrate in un campo di battaglia: hanno assediato città, depredato case, raso al suolo granai, ammazzato e stuprato donne, bambini e anziani. I signori della guerra non hanno alcun onore.
I corpi delle donne, campo di battaglia (e pure quelli dei bambini)
Il campo di battaglia, semmai, è sempre stato il corpo delle donne, con gli stupri di guerra che sono al tempo stesso armi da usare contro il nemico e premi di consolazione per i soldati mandati a morire al fronte. È una storia vecchia come il mondo, ma è una storia dimenticata, o meglio omessa e legittimata.
Sul tema, una voce di donna su tutte, certo non la sola: Christina Lamb, che con I nostri corpi come campi di battaglia. Storie di donne, guerra e violenza, è un faro per tenere viva la rabbia e la verità, e per uscire dalla lente occidentale che fatica a scorgere l’abuso nel ratto delle Sabine, giustifica gli stupri legalizzati degli italiani in Africa, ride al baldanzoso racconto di Indro Montanelli della sua sposa bambina, definita dal giornalista “un animaletto docile” e dimentica persino l’indulgenza di Stalin sugli scempi compiuti dalla sua Armata Rossa in Europa… Figuriamoci prendere in considerazione il dramma delle “donne di conforto” - in realtà bambine e ragazze - ‘usate’ dai militari dell'Impero giapponese, quello delle donne nell’attuale situazione in Congo e nel Sudan e, più in generale, di qualunque soggettività non sia bianca.
Proprio ieri
- perché per fortuna non tutti gli uomini, come piace sottolineare a quelli che in genere sono parte del problema in realtà - scriveva del “rapimento e della deportazione forzata di bambini ucraini in Russia”. Almeno trentacinquemila solo quelli tracciati nel dossier di un programma che l’amministrazione Trump ha deciso di interrompere. Mi ha straziato la dissonanza tra i fatti osceni raccontati dalla penna professionale e umana di Cavalli e le nostre bacheche social piene di celebrazioni di padri eccezionali: perché o pensiamo che il patriarcato sia sempre un problema delle altre famiglie, o questi signori della guerra che postano le foto dei lavoretti dei loro bambini (ma anche tutti coloro che avvallano le loro ragioni facendo altrettanto) sono ben consapevoli di cosa fanno le bombe a grappolo, il fosforo bianco e pure i loro alleati ai figli di altri padri.La direttrice esecutiva dell’Unicef Catherine Russell, sta urlando all’Occidente dei diritti e delle libertà che in Sudan, teatro di un conflitto violentissimo ostinatamente ignorato, dall'inizio del 2024 sono almeno 221 casi i casi confermati di stupri su minori (il 66% bambine), di cui 16 di età inferiore ai 5 anni e quattro di un anno appena. I dati in questione riguardano solo bambini miracolosamente sopravvissuti: non comprendono quindi i minori morti per gli abusi, e sono fortemente sottostimati per la difficoltà di raccogliere le denunce; in particolare quelle dei maschi, vittime di uno stigma ancora maggiore. Un quadro simile, altrettanto silenziato e ignorato, si registra nella Repubblica Democratica del Congo orientale.
Perché qui l’Europa dei diritti e l’America delle libertà, presentissime invece in territori quali la Palestina o la Siria sono assenti? Perché questi bambini valgono meno dei nostri figli? Perché quei territori non interessano, o meglio non interessa quel conflitto che non intacca le risorse occidentali, e semmai foraggia ancora e sempre il traffico di armi.
I re della guerra (che alla bisogna indossano le maschere della pace e dei diritti) sono nudi, e pure le loro regine sia chiaro!
Ma a me pare che lo siamo un po’ tutte e tutti noi, perché
non ci sono onore, verità, gloria nella guerra. Non ci sono ideali e di certo non c’è giustizia. La guerra non è MAI una questione di onore.
La matematica della guerra
La guerra è sempre e solo una questione di potere. E di soldi, e supremazia: un patto di superiorità sancito da un gruppo di uomini plurimilionari, nella maggior parte bianchi, cui la guerra non infliggerà un solo graffio e per i quali la somma di migliaia e milioni di vite, se non servono alla loro causa, fa zero.
Cambia le regole della matematica, la guerra, e riscrive anche il significato delle parole: nel dizionario dei sinonimi e dei contrari delle lingue dei potenti, dichiarazione di guerra e cessate il fuoco diventano sinonimi. Nella guerra non valgono le firme, né la parola data: nella guerra non c'è mai onore.
Così, lasciata alle spalle la Festa del Papà, mentre a poco più di duemila e cinquecento chilometri in linea d'aria l'umanità esplode in mondo visione senza che l'Europa dei diritti muova un dito, leggo i numeri del genocidio in Palestina e mi chiedo perché a questi “uomini, padri, cristiani” o comunque pronti a imbracciare rosari e a tirare in ballo il loro Dio, che sarebbe peraltro un Dio di pace e uguaglianza e che loro hanno già tradito e straziato, piaccia tanto fare la guerra? Molti di questi hanno figli e li addolorerebbe veder torcere loro un solo capello. Perché le migliaia di corpi straziati dei bambini morti e il terrore atroce di quelli vivi non li scuote?
Nella matematica della guerra un bambino palestinese non vale quanto un bambino israeliano, tanto meno italiano e soprattutto americano. La matematica della guerra ha conti che non tornano mai, per non parlare dei dati che cambiano a seconda della convenienza della fonte che li fornisce.
Nello spiegare il costo umano della guerra russa in Ucraina attraverso questi grafici, per esempio, il reporter esperto in data journalism Rodrigo Menegat Schuinski deve costantemente rendere conto di come i dati forniti a dicembre dal presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy - 43.000 soldati ucraini e 198.000 soldati russi uccisi in quasi tre anni di combattimenti - non corrispondano alle cifre fornite da The Economist , dal servizio russo della BBC e dal Wall Street Journal, e come anzi i dati siano tutti in qualche modo contraddittori tra loro.
Nella matematica della guerra vigono le variabili dei potenti e degli oppressori - religione, etnia, bianchezza, status economico, ecc - e la somma delle vittime, militari e civili, fa sempre zero nel bilancio degli interessi geopolitici dell’Occidente a Gaza, in Siria, in Sudan, in Iran, in Messico, in Myanmar, in Congo, in Ucraina e ovunque il mondo esploda e non si stia parlando di Stati Uniti d’America o Stati Uniti d’Europa.
Eppure la matematica è matematica: la scienza di Euclide, Eulero, Cartesio, sì, ma pure della matematica russa Sofia Kovalevskaya, dei sumeri della III dinastia di Ur, del papiro egizio di Rhind e di Abū Jaʿfar Muḥammad ibn Mūsā al-Khwārizmī, padre dell'algebra. Così, giusto per ampliare il discorso di Roberto Vecchioni, di cui scrive
(un’altra Cassandra) qui e che pare fatto apposta per comparire in appendice al “Solo l'Occidente conosce la Storia” delle Indicazioni nazionali per scuola dell'infanzia e primo ciclo del ministro Valditara.[Sul tema, apro e chiudo parentesi: proprio mentre sto scrivendo è arrivata la newsletter di
, I dati? Non ce li siamo inventati in Occidente.L’ho detto che siamo un coro, e che sono le voci delle donne che proteggono la mia rabbia!]
La matematica del diritto internazionale
Eppure, una matematica della guerra dedicata dovrebbe semmai essere quella che legge i numeri delle vittime civili, con le lenti del diritto internazionale, l’insieme di norme, trattati e princìpi che regola la vita della comunità internazionale. In caso di guerra, infatti, il diritto internazionale umanitario stabilisce una serie di norme per proteggere i civili, le organizzazioni umanitarie e determinate infrastrutture (ospedali, scuole, ambulanze, media, accesso all’acqua potabile, etc), limitare i mezzi con cui viene condotta una guerra e proibire una serie di armi.
In guerra, per intenderci, le morti di neonati, bambini, ragazzi, anziani, donne e in generale civili non dovrebbero valere uno a uno, in rapporto alle vittime militari, perché non dovrebbero darsi (utopisticamente) o essere molto contenute. Sotto il nome di vittime collaterali, eufemismo bellico per definire le morti accidentali (o presunte tali) di civili durante le operazioni militari, finiscono invece da sempre giustificati e deresponsabilizzati i crimini di guerra.
È indubbio però che, nel genocidio in mondovisione in corso in Palestina, si sia superato anche il limite dell’ipocrisia, della simulazione di umanità:
il numero dei bambini uccisi a partire dal 7 ottobre è di oltre tre volte superiore a quello elevatissimo degli anziani, il doppio di quello altrettanto fuori scala delle donne, e di poche migliaia di unità inferiore a quello degli uomini.
Inaccettabile? A quanto pare accettabilissimo.
Ignorare i dati, che non tengono conto peraltro dei raid israeliani in corso dal 18 marzo scorso, che hanno fatto oltre 400 morti in una notte, è criminale. Così come inaccettabile è estrometterli dal discorso pubblico sugli Stati Uniti d’Europa e sul diritto internazionale, promuovendo l’idea di riarmo a difesa della democrazia.
C'e lo racconta bene Paola Caridi su Lucy sulla Cultura: i padri in Palestina non seppelliscono i figli, come scrive Erodoto, perché non ci sono neppure più i sudari. Spesso non ci sono neppure le madri, i padri o un qualsiasi familiare accanto a questi bambini orfani o dispersi da tempo. Non c’è più neppure la possibilità per i bambini di morire con dignità, figuriamoci di vivere. E quindi?
Se è vero che “non si può accettare qualsiasi tipo di pace” (cit. Vecchioni, di nuovo!), è possibile accettare qualsiasi tipo di Europa? È possibile accettare gli Stati Uniti d’Europa, baluardo di democrazia, se sono Stati Uniti disposti a chiudere un occhio su tutto questo?
Le radici patriarcali della guerra
Se è vero, come scrivono Elizabeth Frazer e Kimberly Hutchings, che si può essere femministe e non pacifiste, o al contrario pacifiste e non femministe, è altrettanto vero che le “ragioni della guerra” affondano le proprie radici nella cultura dello stupro, nel machismo, nella supremazia promossa dalle ideologie nazionaliste, nel colonialismo e nel sistema capitalistico.
Tutte queste sono forme di espressione del patriarcato che hanno avuto un ruolo cruciale nella perpetuazione nei millenni del primitivo modello bellico e in quello che Úrsula Oswald Spring chiama il Patriacene, il legame diretto tra la distruzione della società e della natura e il comportamento patriarcale violento.
In tutto questo, mentre noi persone occidentali abbiamo ancora il privilegio di avere paura che arrivi la guerra, nel Sud del mondo come anche in Russia e in Ucraina, le donne imbastiscono e infittiscono le trame di una resistenza in atto da anni. [Qui è dove ho raccontato in passato la resistenza delle femministe russe contro il regime di Putin e la guerra in Ucraina, che continua e si riorganizza costantemente]. Il fatto che noi non conosciamo queste realtà, non ne parliamo, non diamo loro spazio non significa che non esistano. Significa che, di nuovo, usiamo lenti bianche e privilegiate per guardare, ancora e sempre, al nostro piccolo orto bianco che pensa di essere il mondo.
Piattaforme come Capire.org, creata nel 2021 "per dare voce alle donne in movimento, per pubblicizzare lotte e processi organizzativi da diversi territori e per rafforzare i riferimenti locali e internazionali del femminismo anticapitalista, antirazzista e dal basso", sono fondamentali per informarsi, ascoltare voci e storie di donne “assediate dall'iper-imperialismo” che, per esempio
hanno sviluppato forme di resistenza e confronto basate sul ritorno alla terra e su un'economia alternativa, familiare e cooperativa.
Ma anche storie di altre molteplici forme di resistenza - cittadina, logistica, culturale - che, agite tra le maglie del potere che opprime, proprio mentre io scrivo e tu leggi stanno salvando vite umane, creando reti di mutuo soccorso e possibili modelli alternativi, immaginando futuri possibili e presenti capaci di resistere agli attacchi esterni, rinascere e organizzarsi.
La rabbia motrice per creare il presente (e il futuro)
Il femminismo è il contrario della solitudine, e in questi tempi infami abbiamo bisogno di femminismo. Creare terrore e scoraggiare la speranza, farci a pezzi e isolarci secondo il diktat dell’imperialismo divide et impera (se leggi questa newsletter, sai che ne abbiamo parlato tanto anche rispetto ai temi dei diritti riproduttivi e delle donne in generale) è la strategia patriarcale che permette di tenerci in scacco, sotto controllo.
La paura ci porta a isolarci, a farci piccole e piccoli, a costruire barricate attorno al nostro piccolo orto, illudendoci così di poterlo preservare dalla Storia e che questa ci passi accanto senza accorgersi di noi.
Però la storia non si ferma davvero davanti a un portone,
la storia entra dentro le stanze, le brucia,
la storia dà torto e dà ragione.
Come canta De Gregori, che come avrai capito è un po’ la colonna sonora di questo lungo post.
Cadere nella tentazione della solitudine e della disperazione è facile, in questo momento, ma come scrivono
e , Despair is not activism, la disperazione non è attivismo, semmai è proprio quello il gioco che il potere vuole farci giocare per tenerci sotto controllo. L’alternativa è la nostra rabbia e la condivisione con le donne che già stanno mettendo in atto processi rivoluzionari e di resistenza, per “affrontare gli attacchi esterni e interni che cercano di creare terrore e scoraggiare la speranza”.Come ci ricorda Yirley Rodríguez, assistente sociale venezuelana e “femminista del popolo”:
la forza di resistere nelle peggiori condizioni nasce dalla convinzione che è possibile costruire un mondo diverso, un mondo che non si basi sullo sfruttamento o sulla distruzione del tessuto sociale, ma sulla possibilità di costruire una vita in comunità e dove tutti possano vivere con dignità.
La disperazione è il contrario della speranza, o della fiducia se preferisci, visto che come dice
: si sa che la speranza fa cacare.Di sicuro, la disperazione non serve a nessuno, non a me, non a te, non alle persone che amiamo e a questo mondo. Alziamo gli occhi che la paura e l’impotenza ci stanno facendo tenere rivolti verso il basso: è il momento di non stare da sole, come ci ha insegnato Michela Murgia, e di scegliere di essere la donna che non lascia sola le altre.
Organizziamoci. Possiamo farlo in modo creativo, ma abbiamo già anche molti esempi, vicino e lontano a noi, che non stiamo prendendo in considerazione.
Da dove cominciare?
Dalla persona che ci è più vicina e che puoi aiutare concretamente ora, ma che finora non hai visto, come non l’ho vista io perché, impegnata a capire come cambiare il mondo intero, non ho saputo guardare nello spazio che sta tra me e la mia mano tesa.
Dalla persona che oggi io scelgo e tu scegli di non delegittimare o sminuire per sentirci migliori.
Dalla donna che sta subendo un attacco oltraggioso e di cui prendiamo ora le difese, anche se non ci piace, perché il femminismo non è amichettismo ma neppure la premessa da buona samaritana, “non condivido quello che fa xy ma la difendo” (di nuovo i recenti ed ennesimi attacchi a
Ma anche dalla “persona amica” da cui mi affretto a prendere le distanze appena cade e sbaglia, e che lascio sola: contraddittorio, dissenso e responsabilità sono legittimi, finché non diventano armi per annientare chi commette un errore.
Ho delle scuse da presentare a riguardo, e conto di farlo presto. E tu?
Ho anche alcuni “Come stai?”, “Posso fare qualcosa per te”; e pure dei “Ho bisogno di aiuto”, che non sto dicendo. E tu?
Potremmo partire da lì.
Teniamoci strette, organizziamoci!
E poi la gente, (perché è la gente che fa la storia)
quando si tratta di scegliere e di andare,
te la ritrovi tutta con gli occhi aperti,
che sanno benissimo cosa fare.
Quelli che hanno letto milioni di libri
e quelli che non sanno nemmeno parlare,
ed è per questo che la storia dà i brividi,
perchè nessuno la può fermare.
La storia siamo noi, siamo noi padri e figli,
siamo noi, bella ciao, che partiamo.
La storia non ha nascondigli,
la storia non passa la mano.
Grazie per aver letto fin qui!
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Ilaria Maria Dondi
Grazie mille questa newsletter è molto interessante condivido ogni parola. Lucy