"Se tornassi indietro forse non farei figli"
"Guarda che poi te ne penti!" è la profezia con cui si ammonisce ogni donna senza figli. Nessuna madre può invece dire che, col senno di poi, non farebbe figli senza essere considerata mostruosa.
Ciao, io sono Ilaria Maria Dondi, faccio la giornalista e mi occupo di questioni di genere. Ho scritto il saggio “Libere. Di scegliere se e come avere figli” (Einaudi, 2024) e questa è la mia newsletter in cui scrivo di diritti riproduttivi (che sono anche diritti a non riprodursi).
“Se tornassi indietro forse non farei figli, sapete?!”
A dirlo, all’improvviso, durante una conversazione tra mamme è una conoscente che ha due figli adolescenti. Il contesto è quello di una pausa professionale, prima di riprendere un incontro di lavoro. La confidenza tra le presenti è poca, ma l’argomento è di quelli che creano un’atavica familiarità tra donne. Si parla dell’incredibile stanchezza che ci attanaglia un po’ tutte, della performatività incalzante in cui tutto è urgente, del senso di essere perennemente precarie anche in lavori sulla carta stabili nei quali si sta come limoni da spremere (e, se arranchiamo o alziamo la testa, sostituire con altri limoni).
Parliamo del lavoro retribuito che ci pretende performanti, come se non avessimo figli né una vita oltre l’impiego, e del lavoro gratuito, di cura di case, genitori, parenti, bambini e ragazzi che diventano grandi.
Come si fa a tenere insieme tutto in una società che ci richiede di essere madri (ma anche figlie, nuore e mogli) come se non lavorassimo, e scarica sulle donne il tempo lungo e pesante della cura?
In questo stillicidio di scadenze, incombenze, appuntamenti, prenotazioni, bisogni altrui e richieste di attenzione, come si fa a trovare un piccolo spazio per sé? Una boccata d’aria, un tempo lento per coltivare un’aspirazione, ridimensionata giorno dopo giorno e oggi, pur così piccola, tralasciata in attesa di giorni migliori?
“Se tornassi indietro forse non farei figli, sapete?!”
Lo dice e sorride. Incassa le spalle come a chiedere scusa, a precisare che si tratta di una boutade. Sorride, e ci guarda una a una: pare aspetti di vedere l’effetto delle parole che ha pronunciato, e forse già pensa che non avrebbe dovuto lasciarsele scappare. Le altre due ridacchiano imbarazzate: “Ma no, dai?!”. Una in particolare abbozza qualcosa sul fatto che “No, addirittura così no…”. Lei sminuisce, contestualizza la frase: certo che è contenta, certo che adora i suoi figli, certo che non farebbe mai a cambio…
Io, che di madri pentite e di ambivalenza materna scrivo e parlo costantemente, mi sorprendo del mio pregiudizio: è una donna da cui non me lo sarei aspettata. Con figli grandi che adora, con i quali condivide passioni e un rapporto paritario, senza particolari conflitti, nonostante l’età dei ragazzi. La sua affermazione me la rende più umana, e vicina.
Pochi giorni dopo succede di nuovo. Stavolta è un’amica:
“Credo di aver capito che non avrei dovuto essere madre, anche se da fuori sembra il contrario. Se si potesse tornare indietro, con il senno di poi, penso che dovrei stare da sola, coltivare la mia indipendenza”.
Da lei questa frase me l’aspettavo forse ancora meno, nonostante sia una persona con cui condivido una connessione profonda. A differenza mia, la vedo sempre così solida nel suo essere madre: tutto attorno a lei può vacillare, ma mai è successo finora con la sua identità materna, che è stata anzi in questi anni la spina dorsale che ha tenuto in piedi un po’ tutto il resto.
Mi piace cogliermi in fallo e rendermi conto che, soprattutto quando si tratta di persone che mi sembrano tanto lontane da me - o al contrario che mi sono così incredibilmente vicine -, è facile anteporre un pre-giudizio o non mettere in discussione le mie certezze. Capita un po’ a tutte e tutti, lo so, ma a differenza di un tempo oggi mi piace stanarmi perché mi porta a evolvere: come persona, che si mette in ascolto, e nelle relazione con l’altra, che è sempre un processo in corso e, per fortuna, mai un punto d’arrivo.
Ma sto divagando.
Quello che ho imparato ascoltando centinaia di voci di donne diverse, mentre facevo ricerche e interviste per scrivere Libere. Di scegliere se e come avere figli, è che nell’intimità di una sorellanza senza giudizio, sono tante ad ammettere che, con il senno di poi, quel bambino o quella bambina non l’avrebbero fatto, o non in quel momento.
Non c’è colpa alcuna in questo, così come non c’è merito nell’essere madri che rifarebbero tutto. Dire "Se tornassi indietro forse non farei figli" non sminuisce i nostri sentimenti per coloro che abbiamo generato; né ci rende madri pentite a priori.
Sul pentimento delle donne childfree e delle madri
Una delle frasi che le donne che non vogliono avere figli si sentono dire più spesso è:
«E se poi te ne penti?»
È il pregiudizio per eccellenza, che cala sulle donne childfree, talvolta con toni da ammonimento («Guarda che te ne pentirai») o predizione («Cambierai idea e sarà troppo tardi»). Nessuna madre può invece dire che, col senno di poi, non farebbe figli senza essere considerata mostruosa.
Eppure, il pentimento è una possibilità implicita in qualsiasi scelta: e quelle riproduttive non fanno eccezione. Detto ciò, la statistica dice che la maggior parte delle donne che optano per la scelta di vita nessun figlio non si pente.
Ma i genitori che “se tornassero indietro” forse non rifarebbero figli (o ne farebbero meno) quanti sono?
Quando il libro di Orna Donath, Pentirsi di essere madri. Storie di donne che tornerebbero indietro. Sociologia di un tabú, uscì in Italia nella traduzione di Sabrina Placidi per Bollati Boringhieri, era il 2017. A quel punto mi ero lasciata la depressione post-partum che ho raccontato anche qui alle spalle, ed ero una madre serena. Pure, la lettura delle testimonianze raccolte dalla sociologa mi risultò a tratti insostenibile e particolarmente dolorosa.
Alcune parole, in particolare, avrei potuto scriverle io pochi mesi prima o, più verosimilmente, tacerle uguali:
«Mi pento di aver avuto figli e di essere diventata madre, ma amo i miei bambini. Se non mi piacessero, non vorrei che esistessero. Ma io voglio che loro ci siano, solo non vorrei essere la loro mamma»
L’indicibilità di questa affermazione in una società che identifica la donna nella maternità è una gogna che mette a rischio l’integrità fisica e mentale di chiunque abbia sperimentato un pentimento anche solo temporaneo nei confronti del proprio figlio. Figuriamoci dunque la censura cui vanno incontro le donne che sviluppano la consapevolezza di un pentimento esistenziale e perenne, non legato a una situazione di disagio o alla malattia.
Premesso che il pentimento radicale di cui parla Donath è altro dall’ambivalenza materna che le due donne di cui ho scritto all’inizio hanno condiviso con me nei giorni scorsi, mentre scrivevo Libere mi sono arrovellata molto sulla necessità di capire quante genitorialità pentite (o quanto meno tentennanti) si nascondano dietro la facciata di genitorialità normali, private della loro voce e delle loro storie.
Una prima risposta me l’hanno data i numeri - mostruosi - della violenza sull’infanzia in ambito domestico: un chiaro indicatore sociale dell’abbondanza di genitorialità inconsapevoli, inette e pure pentite, magari senza saperlo. Genitorilità che, in ogni caso, sarebbe senz’altro meglio non fossero state. Non è però questo il punto, qui; ma quello condensato in quest’altra testimonianza riportata sempre da Orna Donath in Pentirsi di essere madri:
«Figli? Ci rinuncerei nella maniera più assoluta. A tutti e tre? Sí. È doloroso ammetterlo, e di fronte a loro queste labbra non lo diranno mai. Non capirebbero, nemmeno a cinquant’anni, o forse allora sí, però non ne sono sicura. Farei totalmente a meno di loro. Davvero. Senza battere ciglio».
Quante madri in questa e altre testimonianze presenti in Pentirsi di essere madri possono leggere o hanno letto per la prima volta parole che le raccontano come esseri umani e non come mostri? Avere dei dati scientifici su un argomento tanto tabú è pressoché impossibile, ma alcuni esperimenti aiutano a farsi un’idea. Quando la giornalista Ann Landers chiese ai lettori del Chicago SunTimes se, con il senno di poi, avrebbero rifatto la scelta di avere dei figli, le risposte arrivarono a migliaia: il 70% per dire no. Erano gli anni Sessanta, ma sondaggi simili fatti trent’anni dopo da Leslie Lafayette di ChildFree Network riportano risposte negative tra il 45 e il 60%. La maggior parte dei genitori pentiti che scrisse a Landers addusse motivazioni comuni, quali lo sbilanciamento eccessivo tra sacrifici e soddisfazioni e lo scollamento tra le aspettative che si erano fatti sulla base della narrazione sociale della genitorialità e la realtà.
Nulla che Euripide non avesse già messo in bocca al coro delle donne di Corinto nella sua Medea (qui nella traduzione di Maria Grazia Ciani per Marsilio, Venezia 1999):
E dunque io vi dico: tutti quelli
che non hanno mai generato
dei figli, sono piú felici
di quelli che ne hanno avuti.
Chi non ha figli non può sapere
se procurano gioia o dolore
agli uomini, non può sapere
quante angosce gli sono risparmiate.
Chi invece ha in casa figli che crescono
si tormenta sempre, io lo vedo,
prima per allevarli bene,
poi per lasciar loro da vivere.
E mentre si affanna non sa, non può
sapere se saranno buoni o cattivi.
Eppure l’esperienza della genitorialità pentita è ancora indicibile, soprattutto se riguarda la madre. È pieno il mondo, infatti, di padri che hanno abbandonato i figli senza diventare mostri, o in alternativa si limitano a condividere con loro un tetto delegando ogni esigenza emotiva, educativa e di crescita alla moglie/compagna. Né la prima né la seconda opzione sono concesse alle madri: almeno non senza che assumano i tratti repulsivi della strega.
E se il mostro fosse invece proprio l’obbligo materno di amare il figlio? Il cappio affettivo che si scioglie se a tirarlo è il padre e si stringe ancora di più quando è la madre a tentare di sottrarsi?
Ogni volta che compiamo una scelta siamo consapevoli della possibilità di pentircene. Così come siamo coscienti dell’irreversibilità di alcune decisioni, che prendiamo senza avere sfere di cristallo. La genitorialità non fa differenza e, senza pretesa di trovare soluzioni immediate o univoche, possiamo almeno dirlo e, azzardo, raccontarlo persino ai nostri stessi figli e alle nostre figlie, quando saranno adulti e adulte, così da liberarli e soprattutto liberarle.
Non è difficile comprendere come una madre finisca per amare un figlio non voluto ma capitato; non dovrebbe essere dunque complesso concepire anche la possibilità che una donna possa desiderare sottrarsi al laccio di un figlio desiderato e persino molto amato, o ammettere l’errore di essere diventata madre.
“Perché vuoi figli?”: la consapevolezza che ci manca
Le donne senza figli sono state allenate nei millenni a scandagliare le ragioni volontarie e involontarie della loro non maternità. Di più, sono state stigmatizzate, colpevolizzate e inquisite quando non madri: a ognuna è stato richiesto più volte di giustificare il perché di questa mancanza sociale incresciosa.
Questo ha costrette le donne childfree (senza figli per scelta) o childless (genericamente senza figli, eventualmente anche non per scelta) a una pratica di autocoscienza involontaria sulle loro scelte o condizioni riproduttive, che per alcune è diventata via via sempre più consapevole, e ha dato vita a una tradizione tra le più vivide del pensiero femminista. In ogni caso, come conseguenza di questa puntigliosa investigazione millenaria, la maggior parte delle donne senza figli sa benissimo perché non ne ha avuti, o non ne avrà.
Ed è sempre per questo che - in una scelta childfree - il pentimento è un’opzione possibile, ma statisticamente poco ricorrente.
Al contrario la maternità, più che una scelta possibile, è un’identità che la società sovrappone all’identità femminile stessa. Nessuno interroga il desiderio delle donne che hanno avuto figli o che vorrebbero averne* e, in mancanza di un’autocoscienza materna, la maternità finisce spesso per essere una tappa quasi scontata nella vita di una donna.
Ora, a me non pare pretestuoso domandare a se stesse:
Perché ho fatto figli?
Perché voglio avere un figlio?
Mi rendo conto sia scomodo, ma importante comprendere cosa ci muove:
Facciamo figli perché li vogliamo o perché è normale e si è sempre fatto così? Siamo mosse da una volontà precisa o la maggior parte di noi ha introiettato una norma e la segue, senza interrogare il proprio desiderio? Abbiamo gli strumenti per immaginarci non solo come madri, pur magari scegliendo di diventarlo lo stesso, o manchiamo della capacità di pensare futuri alternativi? (estratto da Libere)
Credo che indagare con onestà sulle nostre scelte passate, presenti e future, significhi dare loro dignità e valore; anche se dovessimo riconoscerle come frutto di stereotipi, nel qual caso, invece di colpevolizzarci, potremmo essere orgogliose della nostra consapevolezza.
Se tornassi indietro, rifarei mio figlio (o mia figlia, o i mei figli)?
È una domanda cui non dobbiamo rispondere se a farcela sono altre persone, ma che forse vale la pena fare a noi stesse.
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*“Perché hai figli?”: le risposta delle madri che ho intervistato (e una precisazione importante).
Ho sottoposto questa domanda a molte donne con figli riportando, con il loro permesso e in forma anonima, le risposte nel mio saggio Libere. Di scegliere se e come avere figli (Einaudi, 2024).
Importante: ho sottoposto il questionario, in cui compare la domanda “Perché hai figli?” anche nella variante “Perché pensi di voler avere uno o più figli?”, all’interno della ricerca che stavo conducendo, e ai fini della stessa; MAI in contesto di conversazioni private.
Lo preciso affinché nessuna persona ritenga che io voglia con questo proporre di scandagliare abitualmente e arbitrariamente le scelte o condizioni riproduttive delle madri con interrogativi simili.
Esattamente come quelle che indagano scelte o condizioni riproduttive delle donne childfree o childless, si tratta di domande più che inopportune, violente, e non giustificate da alcun tipo di curiosità o presunta prossimità con la nostra interlocutrice.
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Grazie, di cuore.
Ilaria Maria Dondi
Mi ha colpito la donna che dice che non lo dirà mai davanti ai suoi figli, è stato brutto sentirselo dire (nel mio caso da mio padre) oltretutto quando avevo solo 11 anni.....
Grazie.