Come crescere (o desiderare) figli se manca il villaggio?
Questa è un'edizione di "Rompere le uova" speciale (vi avevo avvertito 😉)! Per la prima volta ospito un'altra autrice e professionista... e non poteva che essere una persona che stimo molto!
A fine marzo, durante una bellissima presentazione di Libere. Di scegliere se e come avere figli, fatta insieme al Brescia Pride nel contesto di Sottovuoto Festival, unə ragazzə mi ha chiesto: “Pensi che per crescere un figlio serva ancora il famoso villaggio?”.
Ho risposto che il villaggio serve: non solo per crescere un figlio, ma anche per crescere come persone; così come serve anche solo per desiderare un figlio (il riferimento è ovviamente alle tante persone che vorrebbero diventare genitori ma non possono, non a chi legittimamente sceglie di non volere figli!). Perché questa società, apparentemente così pro-natalista, in realtà ci mette i bastoni tra le ruote dal punto di vista del lavoro, sociale ed economico, e si accanisce contro tuttə coloro che non rientrano nell’ideale della famiglia eteronormata e non solo! Ne avevo scritto più diffusamente in Se sei donna ci si aspetta che tu diventi madre (ma non vale per tutte!).
Per la verità, quella sera, alla domanda: “Serve ancora il famoso villaggio?”, ho anche risposto:
“Sì, purché non sia un villaggio di stronzə e persone giudicanti, quello in cui ci buttiamo l’unə addosso all’altrə aspettative, stereotipi e ideali irraggiungibili di maternità e genitorialità performanti!”.
Purché cioè non sia il villaggio - o quello che ne resta - in cui spesso ci troviamo a muoverci da madri, ma anche da donne e persone childfree e childless.
Per questo quando Anna Acquistapace (è lei, la prima guest star di
Ma direi che è tempo di passare la parola alla mia ospite, affinché sia lei a parlarvi di Grembo e di Ensemble Festival. È con profonda emozione e gratitudine che cedo per lo spazio della mia newsletter ad Anna Acquistapace!
“Mi sono chiesta se il non aver insistito nel chiedere l’epidurale fosse il frutto di un condizionamento sociale”
Ciao, sono Anna Acquistapace!
Con queste parole, ho raccontato nel diario di gravidanza, la storia del mio parto. Un racconto semplice, che assomiglia a quello di tante altre donne che, come me, pensavano che passare attraverso il dolore fosse una condizione necessaria per dare la vita.
“Normale”: perché come ti spiegano nei corsi preparto, il dolore è quella sentinella primitiva che ti fa capire che è arrivato il momento di trovare un luogo sicuro per dare la vita.
Peccato che quella visione così naturale, a volte poetica, non è uguale per tutte. Il dolore è qualcosa di soggettivo e, quando si parla di parto, puoi aver fatto tutti gli esercizi sulla pallina da tennis, ma solo in quel momento scopri quanto sarà doloroso. Da quando ho partorito, mi sono chiesta molte volte perché i progressi della scienza, e quindi la somministrazione dell’epidurale, non andassero di pari passo con la cultura della nascita, che ancora oggi si riassume con i detti “si è sempre fatto così”; “tu sei donna, tu puoi”; “siamo fatte per dare la vita”.
Perché ancora questa narrazione così edulcorata della maternità?
Non siamo stanche delle immagini di neo mamme dall’aria così angelica e serena?
Come fanno le coppie a rimanere a galla quando per mesi non si dorme e si è distrutti dalla stanchezza?
Domande banali, ma forse c’è dietro qualcosa di più grande. Alziamo un po’ l’asticella.
Perché i padri non sono mai contemplati nella narrazione della genitorialità?
Com’è possibile che, se vesto mia figlia di azzurro, me lo si faccia notare come stravaganza?
C’è bisogno di andare oltre gli stereotipi, oltre i consigli non richiesti.
Così è nato in me il desiderio di dare una forma a quei pensieri, senza che diventassero l’ennesimo racconto autoriferito. Sentivo che non era sufficiente una definizione univoca di maternità, perché io stessa ero la somma di tutto quello che avevo letto, ascoltato, visto, incontrato, imparato e sbagliato.
Così è nato Grembo, racconti di pancia
Era l’aprile 2023 e all’interno dell’agenzia LUZ dove lavoro è nato Grembo, racconti di pancia, un podcast che racconta storie di mamme, papà e non solo, con l’obiettivo di far sentire meno sole le persone. Un lavoro di squadra, nato grazie alla spinta della CEO di LUZ,
, e grazie al sostegno dei miei colleghi.Il titolo scelto è una parola che evoca un immaginario molto forte: il “grembo” ha un significato più esteso rispetto all’anatomico utero.
In apertura di ogni episodio dico questa frase: “Il Grembo è luogo da cui tutti noi veniamo, ma è anche la nostra finestra sul mondo”. Un concetto ancora più chiaro se guardate l’illustrazione del podcast, firmata dalla talentuosa illustratrice Giulia Rosa: una pancia in attesa, sorretta e accarezzata dalle mani, su cui è disegnata una finestra, da cui si intravedono delle nuvole.
Questa immagine ricorda il celebre dipinto di Magritte, L’impero delle luci, di surrealista memoria, dove i nostri sensi vengono tratti in inganno da una casa avvolta dalle tenebre ma sovrastata da un cielo azzurro.
È proprio questa l’immagine della mia maternità, che si stava delineando giorno per giorno: momenti di grande luce, entusiasmo, energia, ma allo stesso tempo (o magari subito dopo) di grande buio, solitudine, difficoltà. Mi sono detta che forse avrebbe avuto senso far emergere tutto lo spettro di sfumature che c’è tra il bianco e il nero. Ho pensato che avrei voluto raccontare tante storie quante sono le sfaccettature della genitorialità (spoiler: infinite).
Mi sono data una regola: l’avrei fatto senza giudizi e con gentilezza.
Volevo andare nella direzione opposta dei social network, dove non c’è spazio per i tempi lunghi, per gli approfondimenti, e nemmeno per i silenzi. Sentivo che c’era bisogno di rallentare, di approfondire e di entrare nelle orecchie delle persone, in modo gentile.
Ecco quindi che il podcast diventava un alleato eccezionale: perché si entra in punta di piedi nella vita di chi racconta la propria storia; ci si mette all’ascolto, in silenzio; ci si focalizza sulle parole, perché il resto non è importante.
A proposito di parole, ce ne sono alcune che ho scelto per introdurre ogni episodio:
Una piccola premessa prima di iniziare: ci tengo molto che questo podcast arrivi senza ferire o urtare la sensibilità di chi ascolta. I temi che trattiamo sono talvolta sensibili e le storie che gli ospiti decidono di condividere sono il frutto di scelte e cammini personali. Vi invito quindi ad accogliere con gentilezza le storie di chi si racconta al microfono di Grembo. Senza giudizio. Buon ascolto!
Iniziare un podcast sulla genitorialità con la scelta di non essere madre
Spesso si pensa che le storie di maternità inizino da un test positivo in mano. In realtà esiste un mondo molto più complesso - e i lettori di questa newsletter sono già assai allenati sul tema - e riguarda la questione dei diritti riproduttivi.
Uno dei primi episodi di Grembo è dedicato alla storia di Alice, che ha scelto non diventare madre. Non c’è nulla di semplice in questa scelta: non solo siamo in tempi di denatalità, dove ogni occasione è buona per ricordarci questa responsabilità sempre tutta femminile, ma spesso ci si ritrova a dover giustificare le proprie scelte.
E così in questo episodio siamo partite dal tema del desiderio di un figlio, che è qualcosa di completamente diverso dal dovere:
Io sentivo come di doverlo fare, di doverne parlare con mio marito, ma quelle aspettative che si erano depositate dentro di me era come se mi portassero non solo a doverne parlare, ma anche a doverlo desiderare. Ed è stato in quel momento che sono andata in tilt: quando il mio sentire - che non avevo ancora ben compreso - ha dovuto scontrarsi con il doverlo desiderare.
In altri casi, il desiderio già indagato, si scontra con una realtà dura, come nel caso in cui il figlio tanto desiderato non arriva o se ne va troppo presto.
Quando muore un figlio, a pochi giorni dalla nascita
L’episodio con Arwa affronta il difficile tema del lutto perinatale e rompe con un tabù forte, quello della morte. Arwa ha perso il suo piccolo Almir a pochi giorni di vita e si è aperta al microfono di Grembo, mettendo a disposizione la sua storia.
Affrontare la complessità di un lutto perinatale è una sfida delicata che coinvolge non solo chi lo vive direttamente, ma anche coloro che sono vicini alla famiglia colpita.
Credo che ci sia un equivoco diffuso: spesso le persone che ci circondano esitano a porre domande, forse per timore di arrecare dolore o forse a causa di una mancanza di consapevolezza rispetto a come affrontare questo lutto, soprattutto se confrontata con altre perdite in cui ci sono esperienze più tangibili, come la presenza fisica della persona o del bambino.
Ad esempio, mi è capitato spesso che alcuni amici annunciassero l’attesa di un figlio, il più delle volte dal terzo mese in avanti, e che specificassero che questa attesa arrivasse successivamente a un aborto. Come se si dovessero giustificare. Storie come quella di Arwa permettono di dare spazio nella nostra cultura a un tema ancora troppo avvolto nel silenzio. Perché se è vero che il lutto perinatale è un’esperienza personale e la reazione è soggettiva, pensandolo in una dimensione più sistemica e sociale, possiamo aiutare il genitore a trovare gli strumenti per elaborare questo lutto.
Il veleno delle aspettative
Ecco un’altra parola che torna spesso negli episodi di Grembo: aspettative. Quando si tratta di genitorialità le aspettative sono duplici: quelle verso sé stessi/e e quelle degli altri verso di noi.
Nell’episodio insieme a Marta, la definizione di “aspettativa” è cambiata radicalmente nel corso della sua vita. Diventata mamma a 25 anni, Marta, ha dovuto affrontare una malattia che oggi colpisce tra il 3 e il 7% delle donne in gravidanza: la preeclampsia, detta anche gestosi. Ecco la prima aspettativa che non si realizza: quella di un corpo che, nonostante la giovane età, ha dovuto affrontare una malattia, la cui unica cura è il parto. Alessia nasce prematura e con lei nasce una mamma, che deve combattere il senso di colpa per non essere riuscita a tenerla in pancia un po’ di più. Marta, però, non si scoraggia e continua nel suo progetto di maternità. Poco dopo arriverà un’altra bambina, Elena.
“L’amore si moltiplica” si risponde alle mamme preoccupate di non riuscire ad amare allo stesso modo un secondo figlio. “Non è così semplice” mi ha raccontato Marta, “perché se può essere vero che l’amore si moltiplica, il tempo, quello no”.
E poi tutto può diventare ancora più complesso se nella coppia non si riesce a ritrovare quella complicità che ti aiuta a superare i momenti più difficili.
In quell’episodio ho chiesto a Marta qual era la più grande eredità che voleva lasciare alle sue figlie. Mi ha risposto così:
“La più grande eredità? Che non c’è niente di scritto. Che non c’è nessuna aspettativa. Io non ho una ricetta da dare, non so come funziona, non so se si sta insieme tutta la vita, se possa funzionare per sempre o no. Io credo sia importante che le mie figlie crescano libere di tornare indietro, di sbagliare, perché così ho fatto io.
Più io mi sono forzata a mantenere qualcosa che non era mantenibile, più ho fatto danni. In una società sempre più magmatica come la nostra, più loro saranno rigide, più faranno fatica. Devono ascoltarsi, conoscersi, mettersi al centro e poi tutto ruoterà attorno”.
Come fa un padre ad amare un figlio così diverso da sé?
E a proposito di aspettative, l’incontro con il primo papà intervistato in Grembo, Matteo Bussola, è stato illuminante, perché è ancora raro sentire parlare di paternità con parole oneste.
A volte questa è una associazione molto pericolosa: trasmettiamo ai nostri figli l’idea che gli vorremo bene soprattutto se faranno le cose giuste, se si comporteranno come noi ci aspetteremmo, magari pure se ci assomiglieranno un po’. E invece, come ciascuno di noi sa, alla fine si diventa davvero grandi proprio quando si sviluppa il coraggio di deludere le aspettative degli altri, soprattutto quelle dei genitori.
Quando hai il coraggio di dire: “Io sono questo, sono diverso da quello che mi aspettavi, ma sono questa cosa qua”. Credo che il mestiere di genitore sia il dannato mestiere più difficile del mondo, perché ha a che fare con questa roba qua. Con il capire che i tuoi figli non li devi amare quando fanno le cose giuste o quando ti somigliano o quando sono come speravi che fossero. Ma devi amarli soprattutto quando sono molto diversi, quando cadono, falliscono, perdono, quando ti dicono con ogni fibra del loro corpo che non sono te. E questo è un lavoro che si mette a fuoco nel tempo, che non è sempre facile da capire”.
Quando il gioco è l’occasione per educare alla diversità
Per il mestiere più difficile del mondo, per il quale non esiste una patente, non ho voluto edulcorare la pillola omettendo le parti più difficili.
“È difficile non sentirsi sopraffatti, è difficile per noi genitori. Pensiamo alle crisi di pianto: Zeno - come tanti altri bambini - ha avuto crisi da 30 minuti, 40 minuti. Sono lunghi, ragazzi, lo sappiamo. [...] Ne esci col cervello liquefatto. [...] È dura. Non ce lo dicono abbastanza. Non ci avvertono abbastanza sul fatto che ne usciremo devastati”.
Con queste parole Anna di Zenos Room racconta in modo trasparente situazioni che molti genitori vivono quotidianamente. Momenti in cui, se queste crisi accadono ad esempio in spazi pubblici, dobbiamo mettere in conto degli sguardi giudicanti.
L’episodio con Anna è stato quello più ascoltato finora e forse ho capito il motivo. Anna è conosciuta su Instagram come “Zenos Room”, dove condivide ogni giorno un arcobaleno di giochi, di libri, di idee, ma anche di riflessioni molto serie che nascono dal suo quotidiano di mamma. Il gioco è un lavoro serio: è la prima esperienza del mondo dei nostri bambini. E Anna non perde occasione per creare piccole situazioni che riflettono la realtà effettiva delle nostre città: playmobil con due mamme o due papà, una persona sola con un cane, una nonna con sette nipoti…
Ci sono diversi modi di fare famiglia e il gioco è un luogo ideale per piantare quei semi, quei valori che saranno parte della vita da adulto e della società di domani.
Sempre in questa intervista, sono emersi degli spunti interessanti sul tema degli spazi “child free” o “child less” e della separazione mondo dei bambini-mondo degli adulti.
Ma ha ancora senso parlare di mondi separati?
Nell’epoca del post Covid, abbiamo acquisito maggiore consapevolezza dell’importanza dell’incontro con l’altro/a e di come solo dal vivo si possano creare certe dinamiche. Allo stesso tempo, viviamo in una società che tende sempre più a dividere gli ambiti e le categorie. Esistono ristoranti “child friendly” così come luoghi “child free”. Negli eventi o nelle fiere pensate per bambini si tende ad offrire spunti a dismisura, con il rischio che i luoghi diventino iper-stimolanti, rumorosi, affollati e faticosi, per tutti.
Un bambino non cresce solo in una casa
Conosciamo tutti quell’espressione “per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio”: un detto che proviene dall’Uganda e che in realtà dice letteralmente: “omwana takulila nju emoi”, cioè “un bambino non cresce solo in un’unica casa”.
Viviamo in un mondo che ci fa sentire come esseri singoli e sconnessi e invece abbiamo bisogno di recuperare quel senso di comunità anche nei momenti più forti, come quelli legati alla genitorialità. Paure, timori, frustrazioni, ma anche traguardi, scoperte, gioie sono delle tappe che, se condivise, possono trovare supporto, affiancamento, facilitazione.
Per farlo abbiamo bisogno di liberarci delle categorie stereotipate in cui ognuno ha un ruolo ben preciso da mantenere e dei doveri sociali da rispettare e rileggere il concetto di genitorialità e di famiglia in una visione più aperta.
La famiglia non è solo una mamma e un papà che vivono felicemente sotto lo stesso tetto: ci sono famiglie senza figli, famiglie con genitori separati, famiglie omogenitoriali, famiglie non eteronormate.
Ognuno di noi ha modi diversi di essere famiglia. Eppure siamo ancora circondati da rappresentazioni molto tradizionali, che non rispecchiano la realtà e che rischiano di far sentire le persone non adeguate, perché non conformi a questo ideale inesistente.
Da Grembo a Ensemble, il festival nofilter sulla genitorialità
Dal desiderio di rivedere il concetto di villaggio e di creare una rete più inclusiva, autentica e distante da quell’idea dualistica convenzionalmente abbinata alla genitorialità, è nata pian piano la volontà di creare un festival.
Da dove iniziare? Innanzitutto da una base solida di alleati che potessero aiutarmi nell’immaginare questo progetto. Da soli si fa ben poco. Non poteva mancare il sostegno dell’agenzia di comunicazione, LUZ, che già mi aveva supportato nella creazione del podcast.
In secondo luogo era necessario trovare dei partner che condividessero gli stessi valori di Grembo. Il brand Mustela era già al mio fianco, perché aveva supportato alcuni episodi del podcast Grembo. Nel giro di poche settimane si è formata una cordata di aziende che avevano voglia di cambiare la narrazione comune della genitorialità: da Zeta Service, realtà specializzata nei servizi HR, a Faba, una startup con l’ambizione di rivoluzionare l’educazione e l’intrattenimento dei bambini attraverso un nuovo approccio all’audio e alla lettura; fino a Sestre, startup che vuole diventare il principale punto di riferimento per il benessere mestruale e la fertilità femminile.
Poco dopo si sono affiancate l’ONG We World, Il programma Baby Signs Italia, il brand di design Meridiani, l’agenzia di PR R-Lab e i web magazine Roba da Donne e GravidanzaOnLine. La Stecca3, nel cuore del quartiere Isola, a Milano, è stato il luogo ideale: un hub che ospita una rete di associazioni di natura culturale e sociale, che poteva accogliere facilmente anche noi.
Ma soprattutto era necessario definire un perimetro: quali sono i temi urgenti da affrontare? Chi sono le voci che possono partecipare a questo cambiamento?
Tutto è partito da una lavagna, una di quelle in ardesia, su cui sono iniziate a comparire diverse parole in disordine… Ha iniziato a prendere forma anche l’identità che doveva avere il festival che doveva avere un nome diverso da Grembo, più ampio. Grazie ad
, direttrice creativa e copywriter, l’abbiamo trovato: Ensemble, il festival #nofilter sulla genitorialità.Ensemble in francese significa insieme: insieme ci vogliamo impegnare a rompere gli schemi, per attraversare e superare i ruoli che per tradizione ci hanno affidato e che ora ci stanno stretti.
La programmazione seguirà tre filoni principali:
un ciclo di conferenze su temi trasversali che parlano di genitorialità;
workshop per apprendere informazioni, nozioni e mettersi alla prova;
attività in libertà per famiglie, genitori e bambini, come una mostra fotografica sul tema dell’adozione e la possibilità di farsi ritrarre da Elena Givone, fotografa esperta in ritratti di famiglia e di newborn.
Le parole chiave che erano su quella lavagna di ardesia sono diventate gli appuntamenti di
:Sicurezza
Da un workshop che trasmetterà le basi della sicurezza in età pediatrica fino ad una conferenza che si intitola “Una risposta collettiva alla violenza di genere: la comunità educante”.Cura
Dal prendersi cura di sé stesse, attraverso una tavola dedicata alla fertilità, fino al prendersi cura del futuro dei propri figli e del pianeta (live recording podcast Grembo con Cristina Cotorobai).Lavoro
Dall’identificare quali sono gli ostacoli, ma anche le buone pratiche per la parità di genere nel mondo del lavoro fino ad affrontare la problematica dei nidi e quindi del rientro al lavoro delle donne dopo la maternità.Spazi
Pensare e creare uno spazio ibrido, per adulti e per bambini, per stare insieme e divertirsi come a casa.Benessere
Attraverso l’incontro con persone che possono darci una mano, come ad esempioun’ostetrica esperta in allattamento o una professionista esperta di burocrazie legate alla genitorialità.
Tra gli ospiti del festival, molte voci del panorama contemporaneo:
- , capa della comunicazione di Fondazione Libellula
- , giornalista, HR manager e fondatore della rete “Fior di risorse”
Ella Marciello, “madrina” del festival e direttrice creativa e copywriter
Anna Scavuzzo, vice sindaca di Milano
Sonia Malaspina di Danone, autrice de Il Congedo Originale
- , scrittrice, pedagogista, formatrice e counselor, specializzata nel contrasto agli stereotipi e alla violenza di genere
… e la giornalista e autrice di “Libere. Di scegliere se e come avere figli” (Einaudi, 2024)
, che oggi mi ospita in questa edizione di Rompere le uova!
E dopo il festival?
Due giorni forse non sono sufficienti per fare la rivoluzione. Il dibattito deve continuare: c’è bisogno di moltiplicare le voci e le occasioni di incontro, magari in altri spazi, digitali e non. Ensemble vuole essere solo l’inizio, anzi, in tutta onestà, mi piacerebbe veder nascere altri appuntamenti simili, e non solo in grandi città come Milano.
Intanto, se ti va, ne parliamo insieme, ne parliamo a Ensemble.
Ti aspettiamo, Anna.
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Grazie per aver letto fin qui!
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A Ensemble ci sono anche io! In ottima compagnia
Ciao, adesso a scrivere sono di nuovo io, Ilaria. Come ha anticipato Anna a Ensemble ci sarò anche io. Un po’ perché anche se non sono più la direttrice responsabile di Roba da Donne, da quando non è più una testata registrata (il perché l’ho spiegato per sommi capi qui!), resto comunque la responsabile editoriale! E poi perché avrò l’onere, con molto onore, di tentare di tirare le fila nell’evento di chiusura insieme alla stessa Anna Acquistapace ovviamente, ad Alice Siracusano, al giornalista e scrittore
e a Cristian Micheletti, direttore creativo e strategico di The Next Line - TNL.L’appuntamento con noi è domenica 5 maggio, alle 16.30. Se ti va di partecipare, qui è dove puoi prenotare il tuo posto gratuitamente!
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Ilaria Maria Dondi